Ormai ogni giorno al telegiornale sentiamo la parola “femminicidio” e ci chiediamo come si possa arrivare al punto di perdere la propria vita per amore e per quale motivo queste donne non scappino via dal proprio partner violento dopo il primo segnale di allarme. Quando succede ad una persona a noi vicina la prima domanda che vorremmo porle è “Perchè non lo lo lasci?“.

Dopo un approfondimento teorico che ho affrontato personalmente e grazie all’esperienza diretta presso un centro antiviolenza nell’accoglienza di donne maltrattate ho cercato di immaginare la risposta che darebbero queste donne se solo sapessero trovare le parole.

“Spero che lui cambierà, IO lo cambierò”

L’illusione del cambiamento è la prima causa che tiene la donna incatenata nella relazione violenta. I maltrattamenti infatti seguono quasi sempre il Ciclo della violenza, così come indicato a Walker.

Una prima fase di accumulo della tensione in cui la donna avverte un’escalation della rabbia dell’uomo, sfocia inevitabilmente nella fase dell’attacco in cui si scatena l’atto violento, che sia esso verbale o fisico. Se il ciclo si concludesse così, capiamo bene che chiunque scapperebbe a gambe levate, ma sfortunatamente ci aspetta ancora la parte peggiore, la più dolce ed inquietante insieme. Gli esperti parlano di “fase della luna di miele“. In questo periodo l’uomo si comporta proprio come “ai bei tempi”, come quando tutto andava bene. Inizialmente chiede scusa in modo teatrale, piangendo e giurando che non succederà più. Poi corteggia la donna portandole regali costosi. In molte occasioni le donne ricevono fiori dal proprio aggressore quando si trovano nel letto di ospedale. Questo meccanismo si instaura ogni volta che avviene la violenza, illudendo che quello sia l’uomo di cui si sono innamorate.

Ciò instaura una serie di risposte comportamentali ed emotive della donna chiamate da Walker “battered women syndrome“. Aggiungiamo poi un “sano” istinto di noi donne che nel senso comune chiamiamo “Sindrome della crocerossina“. A questo proposito sottolineiamo che l’educazione delle nostre figlie potrebbe essere il primo grande passo verso il superamento di questa tendenza tutta culturale.

“Lo fa perchè è stressato”

Da un punto di vista psicologico è molto difficile accettare che il proprio partner, colui che dovrebbe amarti più di chiunque altro, ti faccia soffrire, ti sminuisca e voglia provocarti dolore. Così mettiamo in atto naturalmente il meccanismo di difesa della razionalizzazione. Le donne che subiscono violenza cercano una giustificazione all’ira del compagno: un lavoro stressante, un litigio con la famiglia d’origine, il proprio carattere difficile, la cena che non era pronta, i bambini che piangono sempre.

“È tutta colpa mia, non avrei dovuto provocarlo”

Gli uomini violenti utilizzano un meccanismo che Bandura chiama di “disimpegno morale“, la colpevolizzazione della vittima. I soggetti devianti utilizzano questa (molte altre) tecniche per compiere un atto criminale senza provare sensi di colpa. Ogni volta che aggrediscono la donna la accusano di essere stata lei a causare la violenza. La portano così ad autocolpevolizzarsi e convincersi di avere un controllo, anche se minimo, sulla situazione. Questo ci porta al prossimo punto.

“Se faccio quello che vuole lui, fa il bravo”

La donna cerca di modificare il proprio comportamento nell’illusione di evitare le violenze. Questo comportamento può essere letto come “collusione” da parte di osservatori esterni, ma è solo una delle tecniche di sopravvivenza che la donna mette in atto.

“Non so più quale sia la verità, forse sto impazzendo”

Molte donne subiscono l’effetto gaslighting: l’uomo infatti mette costantemente in discussione l’opinione della donna, fino a mette in dubbio la sua percezione della realtà. Questo avviene nel quotidiano, attraverso la svalutazione del suo pensiero, ma in modo ancor più concreto durante la violenza. Molte donne riportano di aver ricevuto un pugno dal compagno e subito dopo di essersi sentita dire “Sei impazzita? Non ti ho tirato un pugno, hai sbattuto da sola sul mobile”. Capite bene che nessuno crederebbe a una risposta simile se avvenisse un’unica volta, ma immaginatevi di essere contraddetti ogni volta che aprite bocca, su qualsiasi vostra idea o percezione del mondo. Alcune donne finiscono per rivolgersi ad uno psichiatra per assicurarsi di non avere una patologia.

“Mi vergogno”

Una grande preoccupazioni di queste donne è il giudizio sociale. Quando pensando di denunciare si chiedono “come potrò guardare ancora in faccia i miei conoscenti dopo che sapranno che ho accettato tutto questo?”.

“Ormai è andata così, non posso tornare indietro”

La donna ha l’impressione di essere entrata in un vortice inevitabile. Bisogna infatti risalire al primo episodio di violenza. Il termine corretto è spostamento del limite del possibile: la donna inizialmente percepisce se stessa come persona dignitosa e rispettabile, la prima sberla o il primo insulto solitamente sono così inaspettati da non riuscire a suscitare alcuna reazione nella donna rimane incredula. Questa mancanza di risposta sancisce silenziosamente il superamento di un limite, modificando per sempre questa percezione di sè. Da quel momento in avanti quell’atto potrà succedere ancora, poiché è già successo ed è stato “accettato”.

“Sono stanca di lottare, la mia vita non vale più”

La violenza provoca ansia, depressione, stress, abbassamento dell’autostima, sintomi psicofisici anche molto gravi come amenorrea (interruzione del ciclo mestruale). La donna si trova senza forze e demotivata ad intraprendere un percorso di uscita dalla violenza.

“Sono sola”

Un elemento quasi imprescindibile delle relazioni violente è l’isolamento. Il partner fa terra bruciata intorno alla donna così che venga abbandonata da amici e parenti e non possa più fare affidamento su nessuno. Secondo le ricerche anche la percezione dell’inefficienza delle forze dell’ordine gioca un ruolo fondamentale nell’uscita dalla violenza. La donna si sente sola, non capita e abbandonata dalle istituzioni.

“Non posso distruggere la nostra famiglia”

Infine l’ancora più pesante che tiene queste donne sul fondo è la convinzione che una famiglia violenta ma unita sia migliore di una separata. La paura che i figli soffrano per l’allontanamento dal padre e per il divorzio dei genitori è così forte da non far vedere una realtà drammatica che è quella della violenza assistita. I bambini che vedono e sentono gli atti di violenza sulla madre apprendono inevitabilmente un modello e si identificano con più probabilità con il genitore del proprio sesso, aumentando le possibilità future di diventare uomini violenti o donne maltrattate. Senza contare gli innumerevoli danni emotivi che i figli di queste coppie subiscono.


Questi sono solo alcuni dei pensieri che girano nella testa di una donna che subisce violenza dal proprio partner. Ci sono casi quindi in cui la donna avrebbe la possibilità concreta di andarsene, ma non lo fa a causa dei meccanismi psicologici che abbiamo appena incontrato. Non dimentichiamo che in molti altri casi la donna vorrebbe lasciare il partner, ma non ha le possibilità economiche per farlo. 

In entrambi i casi va fatto un lavoro di sostegno e supporto di rete, che coinvolga diverse realtà ed istituzioni del territorio.

Se leggendo questo articolo hai pensato che daresti le stesse risposte alla domanda “Perchè non lo lasci?”, contatta un centro antiviolenza. Se abiti nelle zone di Sesto Calende, Travedona Monate e Luino visita il sito http://www.donnasicura.org/


A cura di:

Dott.ssa Martina Varalli

Riferimenti bibliografici:

Bandura A., (2017). Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene.

Catellano R., Velotti P., Zavattini G.C., (2010). Cosa ci fa restare insieme?

Walker L.E., (1984). The battered women syndrom.

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